Perchè Theme Hospital è il gioco più importante di sempre

Segata Kenshiro si inchina di fronte al suo alter-ego Alessio, che ci racconta indimenticabili ricordi di vita e interminabili contese gestionali.

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Benvenuti al Dojo, miei giovani Pandavan.

Oggi il maestro è in ferie e vi parla il pirla dietro la maschera, Alessio.

Come sapete, ogni tanto ho il bisogno fisiologico di togliermi il kimono e scrivere senza tutte le sovrastrutture che, volente o nolente, devo tenere quando parlo come il mio alter-ego. Ci sono dei pezzi che però non riuscirei mai a tirar giù così e i motivi sono fra i più disparati.

A volte parlo di titoli che mi piacciono talmente tanto che è praticamente impossibile rimanere nel personaggio. A volte, invece, succede perché a quel particolare videogioco associo momenti, odori e situazioni distanti e agrodolci. Ricordi meravigliosi e un po’ dolorosi che mi impediscono proprio di parlare dietro la lente di un ignorante marzialista dedito allo studio ossessivo dei giochi SEGA.

Ecco, Theme Hospital è uno di quei giochi lì, a cui sono affezionato più per il contesto che per il gameplay o l’innovazione che ha portato nel genere dei manageriali.

È facilissimo e banale dire quanto l’opera sia pregna dell’umorismo con cui Bullfrog riempiva ogni suo gioco in quegli anni e che serviva a differenziarsi da tutti quei giochi tecnicamente meravigliosi ma con i quali si rideva sicuramente meno, tipo Sim City 2000

È altrettanto semplice dire che l’opera di Mark Webley, che in futuro avrebbe fondato i Two Point Studios, creato un remake del gioco di cui sto parlando e siglato un accordo di publishing con SEGA (eh, alla fine tutto torna) sia un must have per chiunque lo abbia giocato negli anni ’90 ed è così pure per me.

Solo che il gioco non c’entra nulla.

I pomeriggi passati a curare malattie improbabili come la Testa Gonfia e la sindrome di Elvis e ad assumere inservienti per gestire la gente che vomita negli angoli delle sale d’attesa sono il pretesto per rievocare una parte importante della mia vita.

A Theme Hospital ci ho giocato la prima volta a 16 anni nella sua versione peggiore, su quella Playstation 1 che era tutto fuorché una console adatta a sollazzarsi per ore con un genere, quello dei gestionali, fatto per dare il meglio di sé con mouse e tastiera.

Infatti il sistema di controllo per la console di casa Sony mi ha sempre fatto cagarissimo. Era lento, controintuitivo e a tratti fastidioso. 

Abituato com’ero all’Amiga e al PC, con i quali il compito di assegnare ordini, muovere truppe e costruire cose è sempre stato decisamente più semplice, mi trovai talmente annoiato dai comandi che, dopo nemmeno 48 ore lo mollai lì, mettendolo nella mia personale lista dei soldi mal spesi per un videogioco. 

Quello che era un limite per il mio modo di vivere il media era però una roba completamente differente per mia madre.

Mia mamma è sempre stata, da che ho memoria, una videogiocatrice. Anche se nel bar che gestiva prediligeva fare numeri e record con i flipper, a casa non disdegnava passare qualche oretta a giocare, prima a Tetris, Oh Mummy! e Dio solo si ricorda cosa con il CPC464.

Poi venne il Mega Drive e, con esso, i primi litigi per il possesso della console

Ricordo interi pomeriggi di vacanza in cui ci rompevamo le balle a vicenda, dicendoci rispettivamente di smettere di giocare perché “ORA È IL MIO TURNO!”.  Aveva talmente tanta voglia di giocare a Sonic, Castle of Illusion, Zoom e tutti i cartuccioni che avevamo a casa che, per convincermi a lasciarle il posto, mi ricordava che alla tal ora c’erano i cartoni e che avrei dovuto vederli.

Quando cominciai a passare i pomeriggi estivi a zonzo per il quartiere di Genova in cui vivevo (che era più una sorta di paesino a poca distanza dal centro, nel quale noi ragazzini di 9/10 anni eravamo liberi di fare cose sotto una sorveglianza così stretta di tutti i vecchi del posto che, al confronto, MI6 levati) era quasi felice di sapermi a giocare in mezzo alla strada con un gruppo di ragazzetti indemoniati.

Tanto, se avessi combinato un qualsiasi guaio, cosa che accadeva nemmeno troppo di rado, lo avrebbe saputo in tempo reale dal gruppo di vecchi spioni che si trovavano ad ogni angolo del luogo. 

Nel mentre crebbi e passarono gli anni, le amicizie e le console. 

Avevo 17 anni e una Playstation 1 nuova fiammeggiante. A mia mamma non fregava un granché della potenza della console né della nuova narrativa che portava al media. 

Era del tutto indifferente a Parasite Eve, Resident Evil, Final Fantasy e a tutti quei giochi che “bélin come son brutti quei mostri”. L’unica parentesi che ebbe con un “Tripla A” fu con FF8, ma non per la storia.

Lei giocava a Triple Triad. Il fatto che poi l’abbia finito con il party al livello massimo è stata una contingenza di eventi sulla strada dell’ottenere tutte le carte disponibili perché si

Quando però c’era da giocare a Bust-A-Move, Spyro o a un gestionale, era tutto un altro discorso e, proprio per colpa di Theme Hospital, ricominciarono le discussioni che sembravano essersi placate da qualche anno.

L’unica differenza con il passato era la mia età. Purtroppo per entrambi, non ero più un piccolo bimbo occhialuto ma un metallaro adolescente con le palle sempre in giostra, un po’ per gli anni, un po’ perché se ascolti Thrash Metal tutto il giorno non si può sorridere proprio per contratto.

Ogniqualvolta che ci si ritrovava in quel terribile impasse, scattavano le liti e Theme Hospital è stata la causa scatenante di quelle peggiori. Se io lo snobbai nella sua incarnazione PS1, a lei piaceva da morire e la divertiva un sacco, in barba ai controlli, al sistema di menù e all’AI terribile.

Tutti quei colori e quelle situazioni assurde che si generavano in ogni capitolo, unite alla sfida di far funzionare le cose sempre meglio ad ogni replay, la facevano stare incollata alla TV per ore ed ore del suo poco tempo libero. 

Le poche volte che non ero indisposto dalla vita rimanevo a guardarla mentre giocava. Si approcciava Theme Hospital con la maestria di chi conosceva profondamente le dinamiche del genere e non solo del titolo. Era proprio brava.

Nel mentre, la lotta per il possesso della postazione da gioco continuava e si placò soltanto grazie all’involontario aiuto di Maurizio, uno dei ragazzi della “cumpa”, che un soleggiato pomeriggio d’estate mi disse:

 

M. – “Quasi quasi vendo la Play che [non ricordo perché]

A. – “A quanto?”

M. – “Boh, una centomila”

A. – “Se te li posso dare fra un po’ la prendo io al volo”

M. – “Ma che te ne fai? Non ne hai già una?”

A. – “Si, ma devo risolvere una situazione in casa.”

 

Quella sera tornai al focolare con una console di seconda mano perfettamente funzionante e pronta all’uso. 

Quando mamma con quella cadenza di chi Genova ce l'ha nell'anima mi chiese :

Ale, perché hai preso un'altra Playstation che ce l’hai già?” 

Le risposi con un laconico: 

L’ho presa per te, così hai la tua e non mi rompi più il cazzo che vuoi giocare”. 

Ero proprio un amore di ragazzino.

Ovviamente la situazione migliorò e molto. La cosa buffa è che, dopo averle regalato la sua console, mi ritrovai a vederla giocare più spesso di quanto facessi prima. A distanza di tanto tempo ho capito che mi piaceva guardarla giocare ai “suoi” giochi perché era un modo per condividere il tempo con la “nostra” passione, quella per i videogiochi. 

Anche negli anni a successivi, quando dal suo PC passava le ore a costruire ville degne della reggia di Caserta sui giochi della serie “The Sims” o a coltivare campi su “Farmville”, rimanevo ad osservarla con il viso di chi un po’ si annoia, per vedere cosa combinava in quei giochi sempre così uguali a loro stessi ma con cui si divertiva un monte dando libero sfogo alla sua fantasia.

9 anni fa se n’è andata. Da quel giorno non ho più giocato un gestionale. 

 


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